Sono anni che il tema dei rifugiati politici all’estero rappresenta una spina nel fianco – ma in parte anche una risorsa – per il sistema politico e giudiziario. Ogni governo che si è succeduto dagli anni ’90 in avanti si è prodigato per ottenere la loro estradizione dai vari paesi ove si erano esiliati, scontrandosi con il giudizio delle magistrature locali che ravvisavano nelle procedure d’emergenza adottate e nelle condanne in contumacia delle violazioni sostanziali alla concezione del diritto. Già i processi a Sofri, Bompressi e Pietrostefani per l’omicidio Calabresi, la vicenda di Rita Algranati espulsa nel 2004 dall’Algeria in Egitto e da là prelevata di forza dall’antiterrorismo italiano, quella di Paolo Persichetti arrestato ed espulso in poche ore dalla Francia nell’agosto del 2002 in barba alle procedure giuridiche grazie all’iniziale accordo tra il presidente gollista Chirac ed il ministro della “giustizia” Castelli della Lega (poi di fatto sospeso), poi ancora il ricorrente battage mediatico ripetuto a scadenza – nel 2002, 2004, 2007, …, oggi – hanno messo in evidenza la volontà persecutoria dell’apparato nel perseguire reati connessi all’insorgenza politica armata – e non solo – degli anni ’70-’80. Ora la vicenda degli ex militanti a Parigi riconferma e rafforza una linea di comportamento di cui non si vede la fine in quanto funzionale ai fini del contenimento della crescente insofferenza sociale ed al messaggio che si vuol dare: alla giustizia di Stato non si sfugge.
Per un paese che ha impiegato ventiquattro anni per arrivare alla conclusione che l’Aeronautica Militare, nei suoi massimi dirigenti, ha di fatto coperto la strage di Ustica compiuta da qualche “fedele” alleato senza indicare chi (i giudici nella sentenza di primo grado rilevano, tra l’altro, “una forte determinazione ad orientare nel senso voluto dallo Stato maggiore dell’Aeronautica le indagini a qualsiasi livello svolte su Ustica”); per un paese che dopo trentacinque anni ha saputo solo individuare in generici fascisti di Ordine Nuovo i responsabili della strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969; in un paese che non ha mai voluto andare a fondo in vicende definite oscure (ma chiarissime per chi ha occhi per vedere) come quella di Salvatore Giuliano, di Roberto Calvi o di Carlo Alberto Dalla Chiesa; per un paese del genere, terreno di conquista delle mafie, dei poteri forti internazionali, dei servizi segreti, affermare che “alla giustizia di Stato non si sfugge” significa solo minacciare “chi sta sotto” a non azzardarsi ad alzare la testa, a pretendere giustizia sociale e libertà. Si capisce allora molto bene come gli avvenimenti di quegli anni rimangono una preziosa miniera da cui attingere per spargere veleni, per minacciare ritorsioni, per intimidire gli oppositori.
Anche i tempi in cui questo battage mediatico riprende vigore dovrebbe dirci qualcosa. Se per l’arrivo di Battisti dalla Bolivia, ai tempi del governo giallo-verde, ci fu la parata all’aeroporto di Salvini e Buonafede in concorrenza tra loro per dimostrare chi era il più duro (non ricorro all’espressione machista di Bossi), oggi c’è Macron che per prepararsi allo scontro, tra un anno per le presidenziali, con Marine Le Pen, dopo aver sostenuto le nuove leggi liberticide sulla “sicurezza” presenta al parlamento una legge antiterrorismo, facendosi forte dell’accordo con Draghi per l’estradizione degli ex lottarmatisti e liquidando una volta per tutte l’impegno preso da Mitterand di rispettare la tradizione francese dell’accoglimento degli esuli per motivi politici. Un impegno sostanzialmente rispettato da tutti i presidenti che si sono succeduti fino a Macron, dai gollisti Chirac e Sarkozy al socialista Holland, sia pure con qualche eccezione.
In Italia questa operazione, che non si sa come e quando andrà in porto stante le procedure giudiziarie che dovrà attraversare, oltre alla ridondante affermazione che alla giustizia di Stato non si sfugge, è stata accompagnata da altre ridondanti richieste di verità, come se la verità imposta nelle sedi dei tribunali non fosse già una verità di Stato in base alla quale gli esuli sono stati condannati a pene piuttosto severe.
Il ministro Marta Cartabia si è distinta nell’affermare “la nostra volontà di riproporre la richiesta delle estradizioni non risponde nel modo più assoluto ad una sete di vendetta, che mi è estranea, ma ad un imperioso bisogno di chiarezza, fondamento di ogni reale possibilità di rieducazione, riconciliazione e riparazione, fini ultimi e imprescindibili della pena”. Bisogno di chiarezza: quindi le sentenze dei tribunali non hanno dato un contributo di chiarezza, quindi per dimostrare di essere rieducati e riconciliarsi bisogna chiarire – su cosa non si capisce. Anzi si capisce benissimo, l’importante è chiudere un’epoca, definitivamente, e chiuderla sul piano esclusivamente penale con l’espiazione in qualsiasi forma essa si compia.
Incentrare sugli esuli le “colpe” dei movimenti sociali di allora vuol dire dare di quei movimenti un’immagine sostanzialmente criminale, macchiata solo di violenza e di sangue. Per questo il tema dell’amnistia è così indigesto. Cosa ha però di diverso l’Italia di oggi da quella dell’immediato dopoguerra? Perché il ministro della Giustizia di allora, il comunista Togliatti, si poteva permettere un’amnistia generalizzata ai criminali fascisti ed oggi invece si rilancia in grande stile, a distanza di oltre quarant’anni, la pagina degli anni cosiddetti di piombo?
Pensare ad una amnistia comporterebbe l’ammissione che nell’Italia di quegli anni ci fu un movimento diffuso teso al sovvertimento rivoluzionario degli assetti di potere contro il quale lo Stato, in tutte le sue componenti, varò una legislazione d’emergenza che colpì i fondamenti costituzionali e la cosiddetta civiltà giuridica. Una legislazione sostenuta con entusiasmo dal PCI di Berlinguer e del compromesso storico, applicata da quelle “toghe rosse” che istituirono i grandi processi contro il cosiddetto terrorismo, nella cui accezione vennero compresi anche molti esponenti dei movimenti sociali di quegli anni (vedi il teorema Calogero e la retata del 7 aprile 1979 dei principali esponenti dell’autonomia).
Chi scrisse ed approvò quelle leggi infami, da Stato di polizia, non ha mai trovato il coraggio di una lettura storica di quella fase, così come i loro degni eredi e, se a sinistra, non c’è questo coraggio come pensiamo ci possa essere un po’ di onestà intellettuale in una destra comunque colorata (gialla? verde? blu?) che continua ad agitare il drappo rosso della lotta al terrorismo, sempre e comunque, come arma di dissuasione e di repressione nei confronti di ogni possibile movimento di contestazione e di lotta.
Se la lotta (anche quella armata) di quegli anni è stata solo espressione di criminalità, non vi può essere metabolizzazione politica ma solo vendetta e giustizia sommaria, da esaltare con le riprese video, le dichiarazioni truculente, in attesa di agitare i cappi come ben seppero fare i leghisti nei tempi d’oro di Tangentopoli e ben prima del loro “capitano” Salvini.
È importante una volta di più ricordare quali sono stati gli input per una radicalizzazione dei movimenti nei primi anni ’70: le stragi fasciste, i tentativi di colpo di Stato, la violenza poliziesca manifestatasi chiaramente con gli omicidi Pinelli e Serantini, la repressione delle lotte operaie e studentesche. A tutto questo i movimenti reagirono, in gran parte nelle piazze, alcuni prendendo le armi. Di questo bisognerebbe discutere.
Se però sentono il bisogno di tirare fuori delle storie di quarant’anni fa, come se fosse ieri, e minacciano di sommergerci con altre vicende simili rincorrendo per il mondo quanti decisero di sfuggire alla rappresaglia delle leggi emergenziali che condannavano a decine di anni di galera non tanto i responsabili di omicidi che se la cavavano con poco – basta che facessero più nomi possibili, come Barbone – ma i semplici sostenitori (con il famigerato “concorso morale”), un dubbio ci viene. Non è che siamo di fronte all’ennesima operazione di distrazione di massa? Non è che cercano di esorcizzare la paura di trovarsi di fronte ad un movimento di contestazione stufo di balle e di promesse roboanti?
Quello che è certo è che il controllo poliziesco si sta rafforzando e si sta dotando di armi sempre più efficaci, per il controllo sia degli stanziali sia dei migranti: d’altronde in un’Europa che si fa fortezza verso l’esterno e condominio rissoso verso l’interno, in un contesto di guerra, sia esterna sia interna, non ci si può stupire che sia l’elemento repressivo ad assumere centralità. Sta alle classi subalterne, ai movimenti sociali, la capacità di non farsi travolgere dall’isteria securitaria, di dissolvere in sostanza i fantasmi del passato.
Massimo Varengo